Dietro ogni decisione economica c’è spesso una narrazione. Talvolta eroica, altre volte propagandistica. I dazi annunciati dall’amministrazione Trump si inseriscono perfettamente in questo secondo scenario: una strategia presentata come liberazione da un presunto sistema ingiusto, ma che in realtà cela un intreccio di errori concettuali, calcoli distorti e un rischio concreto per l’intera economia globale.
Il 2 aprile è stato battezzato dal presidente americano il “Liberation Day”, giorno in cui gli Stati Uniti avrebbero rotto le catene del commercio internazionale, ristabilendo una pretesa reciprocità tariffaria con il resto del mondo. Ma la logica alla base dei dazi americani è paradossale: si fonda sull’idea che ogni disavanzo commerciale sia una prova di ingiustizia e che ad esso debbano corrispondere imposte proporzionate. L’errore non è solo economico, ma anche culturale, perché ignora la complessità degli scambi globali e l’interdipendenza delle filiere produttive.
Trump ha applicato tariffe generalizzate, con picchi fino al 46% verso paesi come il Vietnam, e un 20% sull’Unione Europea. L’intento dichiarato era di colpire coloro che sfruttano presunte asimmetrie commerciali, ma nei fatti l’impostazione è viziata: include l’IVA come se fosse un dazio, somma imposte nazionali non discriminatorie e ignora che l’aliquota media effettiva applicata tra USA e UE è inferiore all’1%. Il risultato è una visione distorta della realtà, in cui l’apparente rigore aritmetico nasconde un protezionismo di ritorno.
L’impatto sui mercati è stato immediato e profondo. Le borse hanno reagito bruciando miliardi: solo Wall Street ha perso circa 2.000 miliardi di dollari in una giornata, mentre in Europa sono svaniti 422 miliardi. Il dollaro ha vacillato, il petrolio si è indebolito, le big tech hanno perso terreno, e l’oro ha assunto il ruolo di rifugio. Il commercio globale è entrato in una fase di incertezza dove a perdere non sono solo i partner commerciali degli Stati Uniti, ma anche molte delle stesse aziende americane, le cui catene di fornitura dipendono dai paesi ora colpiti dalle tariffe.
Il paradosso è evidente nel caso di colossi come Nike, Apple o Amazon, che si trovano improvvisamente a fare i conti con un aumento dei costi e una riduzione della competitività. Gli stessi consumatori statunitensi rischiano di pagare il prezzo di questo approccio: più che una guerra tra stati, quella dei dazi è una guerra tra narrativa e realtà economica.
L’Italia, in questo scenario, si scopre particolarmente vulnerabile. Con oltre 64 miliardi di euro di esportazioni annue verso gli Stati Uniti, rappresenta uno dei paesi europei più esposti. Settori simbolo del made in Italy come agroalimentare, meccanica, farmaceutica e moda rischiano contraccolpi importanti. Le analisi stimano che dazi al 20% potrebbero tradursi in una perdita tra i 4 e i 7 miliardi di euro, con effetti occupazionali e di crescita. Il paradosso si acuisce se si considera che il surplus commerciale italiano verso gli USA, pur elevato, non è frutto di dumping o manipolazioni, bensì della riconosciuta qualità della produzione nazionale.
Il protezionismo è spesso giustificato in nome dell’autonomia strategica, ma può trasformarsi in un boomerang per chi lo impone. L’illusione è quella di proteggere l’economia interna alzando barriere, ma in un mondo interconnesso, ogni barriera produce conseguenze a catena. La catena del valore è globale, e l’interruzione di un anello si propaga ben oltre i confini nazionali.
Nel frattempo, l’Europa cerca una risposta compatta, consapevole che una guerra commerciale aperta sarebbe un danno sistemico. Il rischio è la spirale dei contro-dazi e un deterioramento delle relazioni multilaterali. Le imprese, intanto, si trovano a navigare in uno scenario instabile, dove le decisioni politiche incidono più dei fondamentali economici.
La morale per l’impresa
Ogni impresa sa che il mercato è fatto di equilibri, di alleanze e di fiducia reciproca. Infrangere queste logiche in nome di una semplificazione aggressiva può sembrare una scorciatoia, ma finisce per impoverire tutti. La lezione che si può trarre anche in altri settori è chiara: le scorciatoie ideologiche sono nemiche della strategia. E in economia, come in azienda, è meglio costruire ponti che muri.